lunedì 14 maggio 2012

La crisi e il suicidio


La crisi e il suicidio




La serie di suicidi che nell’ultimo periodo avvengono in relazione, più o meno diretta, con situazioni di difficoltà economica interroga ognuno di noi. Le persone che si rivolgono a noi esprimono i loro dubbi: “Ce la farò a non impazzire di fronte al fallimento dell’azienda di famiglia?”. “Se, finita la cassa integrazione, non trovo un nuovo lavoro non è che cadrò in depressione ed arriverò a suicidarmi?”. “Sono talmente arrabbiato e frustrato che a volte penso di fare qualcosa di eclatante! Ho perso il lavoro e a 45 anni non so più dove sbattere la testa, ho perso la mia famiglia, che ne sarà di me?”.
Questo clima di tensione e angoscia esistenziale appare quasi palpabile.
In Italia i suicidi annuali secondo le statistiche sono circa 1 ogni 20 mila abitanti con enorme differenza fra Nord e Sud. In particolare al Nord sono 4 volte di più che al Sud. La ricca e prosperosa (economicamente) Germania ha il doppio di suicidi rispetto all’Italia mentre il picco, quattro volte superiore,  lo troviamo nei paesi scandinavi. Il benessere economico parrebbe, quindi, ininfluente rispetto al fenomeno. Su questi dati statistici aleggiano seri dubbi. Se il suicida non viene culturalmente accettato può esserci la volontà di occultamento da parte dello stesso suicida che, per evitare che la sua famiglia debba vergognarsi, può nascondere il proprio suicidio facendolo apparire come incidente stradale, sul lavoro o accidentale. Oppure volontà dei familiari che, con l’appoggio più o meno compiacente dei medici o delle forze dell’ordine, possono, ad esempio, registrare come caduta accidentale un defenestramento. La cultura dell’accettazione del suicidio ha, quindi, una grande importanza nell’incidere sulla statistica. Ricordiamo che fino al secolo scorso al suicida veniva negata la cerimonia religiosa e la tumulazione nei normali cimiteri. In realtà non vi è un vero e proprio aumento dei suicidi ma, probabilmente la crisi economica, con le sue conseguenze, può fungere da fattore scatenante.
 La perdita della sicurezza economica, dell’immagine sociale o gli stenti di una situazione di precarietà sicuramente fungono da fattori di malessere esistenziale e provocano momenti di intensa angoscia. La descrizione più frequente è quella di una persona che si dibatte fra depressione, autosvalutazione e malesseri psicofisici da molto tempo che, d’un tratto, incorre in un evento che “fa traboccare il vaso”. Improvvisamente quella persona si descrive come lucida e calma perché ha superato un limite mentale e la decisione suicida appare chiara e semplice.
Gli uomini si suicidano dalle cinque alle dieci volte di più delle donne perché nell’educazione loro impartita esiste ancora il mito della forza d’animo. “Devi essere forte, farcela da solo, essere come James Bond che anche nella situazione più disperata se la cava, non devi essere una femminuccia”. Le donne educate a essere più umili e accettare la loro fragilità  quando soffrono ne parlano fra di loro, con l’amica del cuore, non hanno timore a recarsi dal medico, ad assumere farmaci se necessario, ad accettare consigli. Occorre che si descriva l’uomo come esso è, una persona fragile con problemi esistenziali, con dubbi difficili da dirimere e con la necessità di stare vicino ad altri esseri umani. Sarebbe parlare del suicidio anche quando non fa notizia e sdoganando la depressione come una malattia “normale” che può capitare nella vita di ognuno di noi dal ricco al povero, intelligente e stupido, famoso o sconosciuto.