La crisi e il suicidio
La serie di suicidi che nell’ultimo periodo avvengono in
relazione, più o meno diretta, con situazioni di difficoltà economica interroga
ognuno di noi. Le persone che si rivolgono a noi esprimono i loro dubbi: “Ce la
farò a non impazzire di fronte al fallimento dell’azienda di famiglia?”. “Se,
finita la cassa integrazione, non trovo un nuovo lavoro non è che cadrò in
depressione ed arriverò a suicidarmi?”. “Sono talmente arrabbiato e frustrato
che a volte penso di fare qualcosa di eclatante! Ho perso il lavoro e a 45 anni
non so più dove sbattere la testa, ho perso la mia famiglia, che ne sarà di
me?”.
Questo clima
di tensione e angoscia esistenziale appare quasi palpabile.
In Italia i suicidi
annuali secondo le statistiche sono circa 1 ogni 20 mila abitanti con enorme
differenza fra Nord e Sud. In particolare al Nord sono 4 volte di più che al
Sud. La ricca e prosperosa (economicamente) Germania ha il doppio di suicidi
rispetto all’Italia mentre il picco, quattro volte superiore, lo troviamo
nei paesi scandinavi. Il benessere economico parrebbe, quindi, ininfluente
rispetto al fenomeno. Su questi dati statistici aleggiano seri dubbi. Se il
suicida non viene culturalmente accettato può esserci la volontà di
occultamento da parte dello stesso suicida che, per evitare che la sua famiglia
debba vergognarsi, può nascondere il proprio suicidio facendolo apparire come
incidente stradale, sul lavoro o accidentale. Oppure volontà dei familiari che,
con l’appoggio più o meno compiacente dei medici o delle forze dell’ordine,
possono, ad esempio, registrare come caduta accidentale un defenestramento. La
cultura dell’accettazione del suicidio ha, quindi, una grande importanza
nell’incidere sulla statistica. Ricordiamo che fino al secolo scorso al suicida
veniva negata la cerimonia religiosa e la tumulazione nei normali cimiteri. In
realtà non vi è un vero e proprio aumento dei suicidi ma, probabilmente la
crisi economica, con le sue conseguenze, può fungere da fattore
scatenante.
La perdita della sicurezza
economica, dell’immagine sociale o gli stenti di una situazione di precarietà
sicuramente fungono da fattori di malessere esistenziale e provocano momenti di
intensa angoscia. La descrizione più frequente è quella di una persona che si
dibatte fra depressione, autosvalutazione e malesseri psicofisici da molto
tempo che, d’un tratto, incorre in un evento che “fa traboccare il vaso”.
Improvvisamente quella persona si descrive come lucida e calma perché ha
superato un limite mentale e la decisione suicida appare chiara e semplice.
Gli uomini si suicidano dalle cinque alle dieci volte di più delle
donne perché nell’educazione loro impartita esiste ancora il mito della forza
d’animo. “Devi essere forte, farcela da solo, essere come James Bond che anche
nella situazione più disperata se la cava, non devi essere una femminuccia”. Le
donne educate a essere più umili e accettare la loro fragilità quando
soffrono ne parlano fra di loro, con l’amica del cuore, non hanno timore a
recarsi dal medico, ad assumere farmaci se necessario, ad accettare consigli. Occorre
che si descriva l’uomo come esso è,
una persona fragile con problemi esistenziali, con dubbi difficili da dirimere
e con la necessità di stare vicino ad altri esseri umani. Sarebbe parlare del
suicidio anche quando non fa notizia e sdoganando la depressione come una
malattia “normale” che può capitare nella vita di ognuno di noi dal ricco al
povero, intelligente e stupido, famoso o sconosciuto.